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PUNTI DI SVISTA a cura di Marco Mori
punti di svista
Lo sguardo di un opinionista

Sociologo, lavora all’ufficio Placement dell’università degli studi di Milano.

Appassionato e riconosciuto attivista del movimento gay per la conquista dei diritti civili. Già presidente dell'Arcigay di Milano.

Impegnato su temi eticamente rilevanti nella Consulta laica, per una città aperta e attenta ai diritti di tutti.

Si fa presto a dire Queer

Ammettiamolo, alzi la mano chi ci ha capito qualcosa su quello che significa Q nella sigla LGBTQ e sarebbe disposto a spiegarla senza tentennamenti in pubblico?

Tralasciando a prossime occasioni una riflessione su questa sigla controversa e incompleta, quasi e forse di più della Salerno-Reggio Calabria, mi vorrei soffermare in queste poche righe, sulla fantomatica Q di queer.

La prima volta in cui mi sono imbattuto nella parola queer è stata quando, nel 2000, ancora dovevo fare coming out con me stesso, per la prima volta mandavano in onda negli stati uniti Queer as folk, storico remake dell’omonima serie inglese.  Fedele e verosimile rappresentazione di un gruppo di amici gay e lesbiche, al tempo per me meta di desiderio irraggiungibile e impensabile, il titolo della serie nasce da un'espressione dialettale di alcune zone del nord dell'Inghilterra: «there's nought so queer as folk», che significa “non c'è nulla di così strano come la gente”; dove la parola queer in inglese significa, oltre che strano, anche omosessuale.

Ma è di circa 10 anni più vecchia la prima argomentazione accademica relativa ad una fantomatica teoria queer,  - cfr. GLOSSARIO.

Se vi siete fermati alla terza riga della possibile definizione lo capisco. Sintetizzare quelle che sembrano “seghe mentali” o chiacchiere accademiche è un’impresa e non mi metto qui a entrare nel merito della questione.

Se ad oggi non c’è chiarezza in Italia, nel movimento, e fuori dal movimento parenti e amici quando parli di queer ti guardano come un marziano, dal mio punto di vista è per via di alcuni aspetti che segnano una differenza incolmabile tra nord America e Italia, dove queer si ferma appunto a Queer as folk, queer eyes for the straight guy (programma televisivo dove 5 gay stereotipati rendevano socialmente, esteticamente  - e stereotipicamente - presentabile un maschio eterosessuale).

Il mondo accademico anglosassone non vive dentro gli steccati in cui vive l’università italiana, racchiusa nei rigidi settori disciplinari degli insegnamenti e delle classi di laurea. La dimensione interdisciplinare che appunto è l’anima degli studi queer al di là dell’oceano non solo non è replicabile, ma spesso non è compresa ed è quindi punita.  Quando a qualche ordinario dicevo di occuparmi di genere la risposta era “perché ti occupi di grammatica?”

Il mondo accademico anglosassone è più permeabile alla società e al dibattito culturale extraaccademico e il rapporto è reciproco con realtà e istituzioni diverse dalle università. E il movimento gay e lesbico americano  è sempre stato, come ogni comunità, un interlocutore dell’accademia, stimolo e risorsa per studi e ricerche ma anche spazio di confronto.

Il movimento gay, lesbico e trans americano negli anni novanta si trovava in una situazione sostanzialmente diversa e imparagonabile (nel bene e nel male) rispetto quello europeo, e quello italiano.

Inoltre, in Italia la strategia dello Stato è sempre stata quella di negare l’esistenza degli omosessuali. In tutti i campi. Non si può dire degli Stati uniti, dove già negli anni novanta venivano istituiti i primi registri di unioni civili, venivano sdoganati personaggi gay nelle serie tv per ragazzi, le sponsorizzazioni per eventi come il pride aumentavano, come i coming out di vip e personaggi famosi e le prese di posizioni di rappresentanti delle istituzioni federali. Un capitolo a parte, ed enorme, che dovrebbe essere sempre tenuto in mente è quello relativo all’impatto che la pandemia hiv-aids ha avuto sulla comunità e sulle lotte del movimento e l’evoluzione che c’è stata sia in termini di prevenzione, cura.  

In Italia, il salto in avanti in termini di visibilità della discussione si è avuto solo negli ultimi 10 anni, ma ancora oggi il nucleo del dibattitto sia nel movimento, sia in accademia, è diverso.

Nonostante il dialogo nostrano in corso tra queer e anti queer sia acceso, le posizioni non sono poi così opposte. Nessuno vuole mettere in discussione l’esistenza delle differenze, siano queste sessuali, biologiche e/ sociale, tuttavia è diversa l’individuazione delle cause da cui esse sono determinate, o si specificano e degli effetti che hanno sugli individui e sulle comunità, sia che identità e comunità siano costruite e/o nominate e/ preesistenti e innate.

Si fa in fretta a dire Pride

Si è concluso il mese di giugno che si caratterizza per la comunità lgbt mondiale come il mese dell’orgoglio, la stagione dei pride.

Anche in Italia ormai da qualche anno, superata la fase caratterizzata dal “pride nazionale” dello scorso decennio, si è entrati in una dimensione di orgoglio manifestato e diffuso in tutta Italia, con una esplosione di manifestazione cittadine/regionali, quest’anno 21, “federate” nell’Onda Pride, nata nel 2013, quando i pride raccolti sotto lo stesso ombrello erano solo sette.

Prima di addentrarmi nei problemi, mi sembra doveroso fare una piccola puntualizzazione storico-politica, per quanto possibile in poche righe.

L'espressione inglese Gay pride (letteralmente: "orgoglio gay"), man mano sostituito con l’acronimo lgbtq e le sue varianti, oppure semplicemente con l’abolizione dell’acronimo stesso, richiama in italiano due concetti distinti: quello di "Fierezza”, in questo caso quella omosessuale e quello di Gay Pride Parade, la marcia dell'orgoglio gay che, a partire dagli Stati Uniti, mantiene in vita la memoria dei moti di Stonewall del 1969, su cui non mi dilungherò in questa sede.

La traduzione dal termine inglese “pride” ha creato in italiano numerosi incomprensioni dovute secondo me dalla scelta di usare orgoglio, che in italiano è anche usato per parlare di "superbia", mentre il senso più corretto sarebbe appunto quello di "fierezza", cioè il concetto opposto alla vergogna, vista come la condizione in cui sono state costrette a vivere, in passato, la maggior parte delle persone omosessuali.

Dal 1970, quando militanti delle associazioni omofile americane, partecipanti ai moti di Stonewall, attivisti politici di diversa estrazione si sono organizzati per realizzare, non solo nella Christoper Street, il primo pride, sono passati 46 anni, e sono cambiate diverse cose, non solo nell’organizzazione, ma soprattutto nella società.

Ci sono tuttavia delle costanti, positive o negative, che resistono, col passare dei decenni, a seconda dell’evoluzione politica del territorio e dello scenario storico in cui sono inserite.

Ci sono ovunque, e ci sono sempre stati, i perbenisti, persone lgbtqi che criticano le modalità di manifestazione spinte, la necessità di sfilare in abiti succinti, o provocatori, che non rappresentano la “normalità” delle persone omosessuali, e farebbero male alla “causa”.

Un problema questo già noto nel 1969, quando nel proporre il primo pride a New York, Craig Rodwell, il suo partner Fred Sargeant, Ellen Broidy, e Linda Rodi sentirono la necessità di scrivere, tra le altre cose:

“Proponiamo una manifestazione che si terrà ogni anno l'ultimo Sabato di giugno a New York per commemorare le manifestazioni spontanee su Christopher Street del 1969, e questa dimostrazione essere chiamato Christopher Street Liberation Day. Nessuna regola di abbigliamento o di età deve essere stabilita per questa dimostrazione.” Christoper Street Day è, per la cronaca, in alcuni paesi europei il nome più usato rispetto a Pride, per le manifestazioni dell’orgoglio di fine giugno .

Chi bazzica gli ambienti lgbt italiani sa che ancora oggi c’è chi inneggia al pride in “giacca e cravatta”, che è una performance già realizzata credo a Padova, nel 2002. Non mi sembra che inseguire il fantomatico decoro o pudore abbia accelerato l’ottenimento dei diritti.

Appunto, altra questione: i diritti. Abbiamo visto che il pride nasce come evento di commemorazione di una insurrezione, non una richiesta politica, tuttavia, nei decenni e diffondendosi in altri paesi, la forma della dimostrazione e del ricordo si è via via declinata in una forma di rivendicazione e lotta specifica per le richieste della comunità lgbt. Ma già nel 69, in quel documento di invito alla prima manifestazione, i propositori collocavano questa manifestazione all’interno di altre battaglie, più ampie in cui tanti erano (si pensa alla pace, alle uguaglianze della comunità nera) e saranno impegnati in futuro.

Negli stati uniti si è arrivati alla piena parità con le ultime sentenze della Corte Suprema dopo 40 anni circa dai moti di Stonewall. Non un viaggio breve e semplice, verrebbe da dire. Tuttavia le legislazioni dei singoli Stati hanno, a partire dagli anni 80, riconosciuto diritti individuali, diritti di coppia, inclusione e coinvolgimento negli aspetti vitali della società alla comunità lgbt. Di conseguenza i pride, dalla east alla west cost sono diventati veri e propri eventi, in  alcune città si chiamano addirittura Pride festival.

Per farla breve, mi permetto di abbozzare una classificazione (le derive sociologiche non smettono di influenzarmi) e di distinguere i pride in due grandi categorie: quelli più influenzati dalla dimensione della parade  e quelli che sono legati più al concetto di march.  In Italia tradurrei i concetti che ho in mente in sfilata  o corteo. Manifestazioni dove si alterano esibizioni, perfomances, dimostrazioni, cartelli  che caratterizzano la parade/sfilata o un movimento più formale, ritmico, con una sua liturgia (non pensate alla veglia funebre, ma al concetto cerimonia) per la march/il corteo. E quale è il dato di rivendicazione lotta e come si manifesta questa in uno o nell’altro? Sarebbe da approfondire.

Per capirci, chiedo a voi, A quale pride avete partecipato? Siete andati ad un corteo o ad una sfilata? E quelli che erano con voi? E chi avevate intorno? E gli organizzatori cosa hanno organizzato?

Vi lascio con questa provocazione perché le parole contano, e a volte, per citare Butler, agiscono in modo performativo.  Secondo me i pride italiani sono sia un po’ sfilata e sia un po’ corteo, più per ragioni subite che volute. E questo potrebbe essere un bene. Ma, per riferirmi al Pride di Milano, la presenza di aziende Google, Microsoft come si colloca affianco a Milanosenzafrontiere e/o ai collettivi di area antagonista e a chi ha contestato il neo sindaco di Milano?

In parte, OndaPride è riuscita a raccogliere in una piattaforma comune le istanze di organizzatori diversi, in contesti cittadini differenti, con percorsi politici non omogenei alle spalle, pur tuttavia, esistono delle velocità diverse nelle differenti manifestazioni. Esiste un grado di approfondimento, e una capacità di dirompenza che i pride alle prime edizioni (Pavia, Treviso, Varese) possono ancora vantare, rispetto a realtà più consolidate come Bologna e Milano dove ho visto un pride sobrio come non mai, per scelta dei manifestanti.

Le grosse criticità che vedo riguardano la capacità, sia a livello nazionale, sia a livello locale, di mantenere unite le differenze, sia le diverse specificità che si ritrovano a sfilare/manifestare.

Nel nordamerica l’esplosione della pandemia HIV Aids prima e la sempre maggiore commercializzazione dell’evento pride hanno spinto gli organizzatori a rimettersi in gioco  e riflettere sul senso della manifestazione anche a ragionare sulle differenti modalità di partecipazione. Chi dentro alla “parade” chi asssiste, come se fosse un mardi gras.

Anche da noi, presenza di aziende e movimenti antagonisti, stereotipizzazione e omologazione dei corpi, commercializzazione, ritardo sui diritti di parità e uguaglianza, divisione su alcune battaglie (come su genitorialità con accesso tramite gpa) pongono la necessità di riflessioni fin da subito, per riuscire a reggere l’evoluzione sempre crescente.

I motivi per cui si scende ogni giugno in piazza alla fine si basano su tre assunti, come ho avuto la fortuna di ricordare nel 2013 dal palco del pride: le persone devono essere fiere di ciò che sono e di come vogliono essere/apparire; la diversità sessuale è un dono e non una vergogna; l'orientamento sessuale e l'identità di genere sono innati o comunque non possono essere alterati intenzionalmente.

Possiamo sfilare o manifestare in modo diverso, organizzare i pride come vogliamo, ma alla fine tutto il resto dovrebbe essere secondario all’orgoglio che ci fa scendere in piazza ogni anno, perché secondo me è ancora valida l’affermazione di G. Rossi Barilli, ne “il movimento gay in italia, Feltrinelli, 1999”: Stupisce la varietà della partecipazione, il vedere una accanto all'altra realtà che normalmente non fanno politica insieme e spesso, quando la fanno, si combattono aspramente.

E la sfida (soprattutto) del pride dei prossimi 46 anni è secondo me proprio quella di gestire queste varietà e differenze.

GPA 

Ora che i vip di questa Italia hanno parlato, ora che appelli e contro appelli sulla Gestazione per Altri sono stati fatti, ora che tutte le dichiarazioni (improprie) all’interno del dibattito sul disegno di legge Cirinnà sono passate. Ora che si sono calmate un po’ le acque ho deciso di dire qualcosa anche io.

Non ho desiderio di paternità, o di maternità, e sono fortunato. Non ce l’ha nemmeno il mio compagno con il quale convivo e ho una relazione da 5 anni.

Tuttavia, nel corso degli ultimi quindici anni, mi sono imbattuto sul tema sia grazie alla mia militanza nel movimento lgbt sia per attività politiche scollegate (ai tempi della legge 40 mi sono battuto per il referendum) sia per conoscenze di coppie eterosessuali direttamente interessate.

I problemi legati alla Gestazione di Sostegno, alla Gestazione per Altri o alla maternità surrogata, volgarmente definite “utero in affitto”, sono da suddividere in riflessioni diverse, pur sempre collegate, ma riguardano e coinvolgono situazioni differenti per le quali spesso non basta la stessa soluzione.

Mi sembra di capire, semplificando molto (e chiedo scusa), che alcune femministe recentemente abbiano rivendicato quanto sarebbe oggi inadeguato il famoso slogan “l’utero e mio e lo gestisco io”, aggiornato con “e lo affitto a chi mi pare”. Questo perché nella maternità surrogata non vi è nessun gesto di libertà: si sostituisce solamente il patriarcato con il mercato.

Ciò che però soggiace all’appello – e molto più facilmente nella rapida strumentalizzazione che ne è scaturita – è il rischio di finire nuovamente, tornando indietro di 50 anni, a rivedere certe divisioni di genere e ruoli come date “per natura”, una cosa che ero abituato ad aspettarmi da reazionari maschilisti. Davvero alcune femministe ci stanno dicendo che le donne si riconoscono “per natura” nel far figli, nell’aver cura di loro? E che quindi alla natura vada riconosciuto quel che è della natura? Perché se così fosse, in concreto si starebbe dicendo che le donne sterili dovranno accontentarsi e gli uomini non potranno mai esprimere un desiderio di genitorialità, senza previa autorizzazione femminile.

Questo della libera scelta delle donne di far “del proprio corpo” quello che vogliono fa i conti con i gradi di libertà del sistema nel quale noi tutti siamo inseriti. E in qualsiasi ragionamento che si fa in merito alla gestazione per altri non si può eludere il discorso riferito alla reale ed effettiva parità di genere in quel preciso sistema giuridico, economico, politico e sociale.

Pensare, come ha fatto un illustre medico, che la gestazione per altri sia un modo per le donne – magari povere e già inserite in un piano inclinato dei diritti – di “arrotondare” non solo è sbagliato, ma nasconde un profondo maschilismo. A maggior ragione se si ritiene che il fine sarebbe far studiare i figli o occuparsi dei mariti. Questo pensiero sarebbe poi tanto diverso dalla prostituzione su ricatto o costrizione? Non credo.

Al contrario, condannare la scelta libera, consapevole e informata su tutti i fronti, senza tener conto che esistono tante sfumature di grigio, rischia di dar manforte a chi da anni cerca di imporre una visione autoritaria della gestione istituzionale dei nostri corpi. Porre un divieto su quel che uno vuol fare del proprio corpo, come portare in grembo un figlio, rischia di rendere vane le battaglie per il diritto di gestirsi in senso autodeterminato: dal diritto all’eutanasia al rifiuto di terapie nel fine vita, fino a mettere in dubbio la legge sull’aborto.

Davvero si vuole questo? Credo che uno dei criteri alla base della legislazione sulle adozioni possa essere di grande aiuto anche per parlare, in modo laico, della gestazione per altri. Sulla necessaria riforma dell’iter sulle adozioni e le professionalità coinvolte si aprirebbe una discussione troppo complessa. Parliamone un'altra volta.

Ma almeno un criterio può essere considerato valido in entrambi i casi.  Non stiamo parlando del diritto di qualcuno ad avere figli, ma del diritto di un bambino ad avere dei genitori. Una forma di tutela del soggetto debole. E nella gestazione per altri i soggetti deboli sono più di uno. Anche se si tratta di debolezze diverse, vanno tutte riconosciute.

Il diritto del bambino ad avere dei genitori incontra il desiderio di genitorialità che ciascuno di noi può avere o non avere. Un desiderio che, per fortuna, è sempre più legittimato socialmente anche per persone che per il loro orientamento sessuale fino a pochi anni fa erano escluse anche solo dal prendere in considerazione la possibilità di vivere come omosessuali, magari in coppia, e crescere contemporaneamente dei figli.

In alcuni Paesi, prevalentemente occidentali, attraverso controlli, stipule di assicurazioni, percorsi obbligati tra donatori e beneficiari si è arrivati a regolamentare un rapporto per permettere ad alcune persone di essere genitori, corrispondendo un rimborso spese, alla luce del sole, a chi permette il tutto.

C’è chi vede, nelle persone che scelgono di ricorrere alla GPA, dei capricciosi in cerca di evasione e, se sono due maschi gay, degli omologati al modello familistico eterosessuale. E comunque sempre degli sfruttatori. Mi sembra molto riduttivo: in un impegno che porta anche a sacrifici per 2/3 anni (investimenti di tempo, energie, passioni e risorse senza certezza di risultati) io vedo un grandissimo senso di responsabilità in quello che si sta facendo. Volere crescere un figlio. Una responsabilità che, al contrario, non è data per scontata dalla natura. Non serve fare esempi, vero?

Perché quando parliamo di genitorialità, nel 2016, parliamo prima di tutto di responsabilità? O invece parliamo di biologia?

Fedele sì, ma come dico io

 

Quasi due mesi fa, dopo un estenuante dibattito e diverse riuscitissime mobilitazioni nazionali, è stato approvato al Senato il ddl Cirinnà il quale, con l’intento di regolamentare la situazione delle unioni omosessuali, in modo improvviso ha toccato il tema spinoso dell’obbligo di fedeltà.

Se volessi parlare di fedeltà non basterebbero 20 pagine per introdurre un concetto che, nel corso del tempo e delle diverse culture, ha assunto un connotato simbolico che è stato liquidato in modo molto grossolano dal nostro Senato della Repubblica. Non a caso il filosofo Cacciari ha definito il dibattitto come un “dialogo tra ubriachi”.

Eliminato dal disegno di legge per volontà di coloro che volevano sminuire e allontanare qualsiasi possibilità di considerare le unioni civili omosessuali uguali al matrimonio civile, l’obbligo di fedeltà è diventato la battaglia di qualcuno che forse non disdegnerebbe il superamento di tale obbligo anche nel matrimonio eterosessuale, perché rappresenta il retaggio di un passato ormai passato

La questione della fedeltà secondo me non è una questione che riguarda il passato. Anzi, scandisce il nostro presente, e sebbene la fedeltà sia diventata quasi uno strumento di valutazione delle performance di un brand e più strumento di analisi economiche e sui consumi, la fedeltà oggi, ancora oggi, rappresenta un elemento imprescindibile delle relazioni umane e di conseguenza, anche (e forse ancora soprattutto) di quelle amorose.

L’obbligo di fedeltà ha sia un aspetto sociale, collettivo, e quindi simbolico/rituale di cui ogni cultura umana non può fare a meno, ma abita anche un aspetto individuale, soggettivo e attrezzato di una dimensione cognitiva propria dell’uomo del terzo millennio (per non dire post secolare, postmoderno e tutte le definizioni post che ci vengono in mente).

Molto probabilmente, coloro che si sono inventati l’eliminazione dell’obbligo di fedeltà dal testo del disegno di legge associano al concetto di fedeltà l’astensione da rapporti sessuali extraconiugali, e quindi, vedendo in questo obbligo il dato di valore (simbolico) dell’unione, non possono riconoscere alle unioni omosessuali la stessa dignità sociale (e simbolica), e di conseguenza ecco il perché dell’abolizione dell’obbligo. Con l’ulteriore conseguenza di legittimare (più o meno implicitamente, a seconda della veemenza degli interlocutori) la promiscuità, che secondo gli stessi è il dato di natura che caratterizza gli omosessuali e le loro unioni.

Tenendo in considerazione che il concetto di fedeltà di una coppia riguarda quanto decidono insieme i componenti della coppia, anche su questa vicenda, al posto di stimolare un dibattito laico e alto nel tessuto sociale, si è giocato per stereotipi deprimenti, in cui soggiace una incredibile omofobia.

Gli attivisti lgbt si sono divisi (e qui nessuna novità) su due fronti, da una parte quelli infastiditi dalla rimozione del divieto, quale simbolo ulteriore del tono di discriminatorio della legge; dall’altra quelli che vedevano il concetto stesso di fedeltà quale retaggio di una cultura cattolica invasiva di cui potevano fare serenamente a meno.

Credo che in qualunque modo il termine venga coniugato e vissuto, presente o assente, la fedeltà sia un elemento di descrizione imprescindibile per riempire di significati i contenuti dell’esperienza umana.

Ve lo ricordate il primo amore? Etero o gay non importa. Intendo quello struggente nato tra i banchi di scuola, quello raccontato incredibilmente bene dal film di Cotroneo in sala in questi giorni, quello di quegli anni dove tutto viene vissuto per la prima volta: le amicizie, gli amori, il bacio. E anche il tradimento.

Per scrivere questo breve pezzo ho provato a ricordare entrambi i miei primi amori. In uno sono stato tradito, nell’altro ho tradito. Non so se considerarlo proprio come il suo contrario “naturale”, ma il concetto di fedeltà mette in moto in me immediatamente un pensiero, ossia quello di tradimento.

L’evoluzione della giurisprudenza italiana sembrerebbe intendere il concetto di “fedeltà” come molto simile a quello di “lealtà”, una lealtà che richiede di mettere in secondo piano decisioni ed interessi individuali di ciascun componente dell’unione se in conflitto con la progettualità di vita comune.

E in questo contesto che l’infedeltà da circoscritta alla dimensione affettiva e sessuale diventa una componente di una fedeltà più ampia che si realizza nella capacità di sacrificare le proprie scelte a quelle condivise nella relazione di coppia e dal sodalizio che su di esso si fonda.

Ma non vorrei sembrare” coppiacentrico.”

In uno degli ultimi incontri di Ilga Eurupe a cui ho partecipato ho avuto la fortuna di conoscere rappresentanti di associazioni che lottano per il riconoscimento di unioni tra più di due componenti, caratterizzate quindi da un poliamore.

È conciliabile un concetto di fedeltà quando si vive una relazione a tre? Ho imparato, dalle testimonianze ricevute, che è possibile problematizzare la questione, e non scadere nel banale o nel discorso pruriginoso.

Come è possibile per tanti vivere in una dimensione di fedeltà, pur non vivendo un rapporto monogamico, la cosiddetta coppia aperta, che non è una caratteristica distintiva delle coppie omosessuali, anzi, sembrerebbe esserci una proliferazione di circoli per scambisti molto capillare a cui accedono rispettabili genitori eterosessuali.

Per concludere. Da una parte l’obbligo di fedeltà usato come clava e strumento puerile di vendetta da alcuni interlocutori politici tocca il nervo scoperto di una cultura profondamente permeata dal retaggio cattolico che vede nella fedeltà quella espressamente sessuale, e la lega in modo abbastanza evidente (almeno per me) al concetto di continenza: armatevi di pazienza e di spirito di sacrificio e rischiate. Fin che morte non vi separi.

Dall’altra, sebbene ci sia un’evoluzione del sentire comune e fedeltà sia diventata sempre più un elemento che può coinvolgere o meno la sfera sessuale e affettiva, i diversi gradi di libertà con cui viene declinata dalle coppie possono nascondere dei tabù, e queste essere soggette a valutazioni di idoneità o meno da persone esterne alla coppia che cercano di ritrovare la propria visione del bene nel comportamento degli altri, forse perché troppo spesso fedeltà significa qualcos’altro, e quindi è facile generare una serie incredibile di fraintendimenti.

Ho amiche che considerano i loro compagni fedeli anche se sanno che hanno rapporti occasionali con maschi, ma queste amiche non sono disposte ad accettare tradimenti dei loro mariti/compagni/partner con altre donne. Non so se l’arrivo imminente (?) dell’approvazione definitiva della Cirinnà e le possibilità relazionali che apre farà loro cambiare idea, ma spero che il nuovo dibattito in programma alla Camera a cui dovremo assistere affronti questo tema, quello sulla fedeltà e sull’obbligo di fedeltà in modo un po’ più civile, e soprattutto più laico facendo maturare là dove serve, e se serve, uno spirito maggiore di tolleranza ed una sana sospensione (o rimozione) del giudizio.

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