top of page
Poesia e psicoanalisi: in viaggio con lo sherpa
Nicoletta Buonapace
La ricerca, a volte un po’ retorica, da parte di molta psicanalisi, di connessioni con la poesia. Forse ci sono davvero delle connessioni, ma per certi versi, inutili a una pratica che si svolge nel qui ed ora di un incontro. Cosa è dunque che suscita il costante richiamo ai poeti di tanta psicanalisi? Forse la consapevolezza di parlare dentro una stanza fatta di sogni? Opera di attenzione, di ascolto, strana, sorprendente, dolorosa e appassionante insieme.

In quella conversazione tra ombre di un sogno, come nella poesia, sentimenti che non hanno avuto parola, possono prendere forma, immagine. C’è anche paura della follia e dell’amore che in essi possono dimorare.

È necessario un lavoro accurato a dividere il grano del senso dalla pula dei fantasmi che pretendono voce, spazio, attenzione.

Si rischia di farsi accecare dal romanticismo legato alla follia dell’arte, ai suoi aspetti distruttivi.

E dentro una stanza d’analisi i fantasmi gridano forte.

Ci vuole una grande lucidità, e nello stesso tempo una certa pietas.

Bisogna stare nella luce.

O meglio, imparare ad addentrarsi nell’oscurità con una fiammella.

La fiammella dell’intelligenza. Intus-legere, leggere dentro o tra.

La poesia attinge alla follia, al dolore, all’inconscio, all’ombra e al nero di pece di certi pensieri, ma non è priva di lucidità, anzi esattamente il contrario, acuminata come la lama di un coltello.

E’ una passione e una trasformazione, è un bellissimo gioco e una appassionante fatica.

Come ciò che accade tra analista e paziente, se sono entrambi sufficientemente accorti e ottimisti…

Non so come possa accadere, ma accade.

Scrivevo: Tu forse sai le regole, come io so quelle della metrica, della musica e delle pause, sai le risonanze che certe parole o favole o pensieri possono avere, così come un sasso gettato nell’acqua può creare onde di senso, allo stesso modo delle immagini di una poesia, quando la loro bellezza ed efficacia illuminano un testo dall’interno, da una zona misteriosa, spesso sconosciuta anche a chi quelle immagini ha prodotto.

Quello che forse cattura la psicanalisi è questo accadere, la domanda che per me è sempre stata il come e non il cosa, somigliando un poco a quel che suscita la poesia in chi non ha confidenza e frequentazione con i testi poetici.

Se c’è qualcuno che, dal vivo, sa porgere la poesia, sa raccontarla, trattenendola tuttavia all’interno di quel segreto che sempre custodisce, le persone s’incantano, si lasciano toccare, coinvolgere. Alla fine rimane loro la sensazione di aver fatto un’immersione in un mondo “altro”, magari dentro una parte di sé alla quale non sanno dare espressione, acquistano forse per un attimo, l’accenno di una visione che non saprebbero tuttavia spiegare.

Allo stesso modo ho vissuto quell’effimero patto che si stringe tra compagni di viaggio per il tempo del viaggio, addentrandomi in un territorio ignoto.

Forse chissà, con la presunzione di capire, di rubare un mestiere. Chi, come me, ha una forte propensione alla scrittura, è sempre un po’ ladro. E’ inevitabile. Si prende quello che serve, anche in modo un po’ selvaggio e lo si fa proprio, anche se non si sa bene come accada né cosa diventerà. Così tutto quello che ho letto, riflettuto, pensato, vissuto, anche in modo disorganizzato e disordinato, anche senza tutto capire, è andato da qualche parte a tracciare sentieri di viaggi futuri. Picasso diceva più o meno: “quando leggo Einstein e non lo capisco non importa, mi dirà altro:” Ecco, è proprio così e lui era un maestro di furti.

Così, in quella stanza d’analisi, a volte mi sembrava di non capire il contenuto di ciò che accadeva, che aveva un significato ancora oscuro, proprio come accade con una poesia difficile, ma che cattura. Credo avesse a che vedere con la specificità di quella relazione. E’ dunque la relazione che è poetica, quel che accade tra, non il dialogo, le parole.

In quello spazio le parole possono essere un balbettio, possono essere banali, stanche, rabbiose, dolorose, ironiche, ma è quel che passa attraverso la relazione che le fa risuonare in modo diverso, che talvolta le illumina di significati altri.

Luogo sospeso, attraversato in compagnia di un traghettatore, uno sherpa, guida di un percorso d’iniziazione, sapiente, misterioso e seducente, che ci indica sentieri, passaggi, come pagine di un libro di difficile traduzione.

In realtà quel che non si sa decifrare è la relazione che intratteniamo, confusa dentro un sogno le cui immagini sfuggenti continuano a provocarci (al di là delle regole di tempo, denaro, paletti, c’è qualcosa d’irriducibile agli schemi che la contengono).

Non importa, in quel viaggio  leggevo e rileggevo il testo e non mi annoiavo, perché sempre nuovo.

A seconda del tempo, degli accadimenti, dello stato d’animo, risuonavano in me, sensi diversi, nella duplice accezione della parola, significati ma anche sensazioni legate al corpo: un tremare di freddo, un improvviso restar senza fiato, un’inquietudine nelle gambe.

Non è sempre così con certe poesie che ci danno un avvampare di sangue e di pensieri?

Dunque la relazione è ciò che sfiora e richiama la poesia,  non la parola detta, sussurrata, non il raccontarsi.

Una relazione che nasce fin da subito con un tempo limitato, quello di un viaggio condiviso, la cui destinazione appare sfuggente,  immersa nel tempo della finitezza.

Storia di un vincolo che ha in sé la malinconia del finire, che libera il sogno e che si scioglierà, una volta arrivati a una meta che di nuovo, tuttavia, si rivelerà provvisoria.

Opera di separazione che ci attende, che ci avrà allenato e preparato a proseguire verso altre mete, “in solitaria”, con una nuova più autentica autonomia.

Opera non facile, che rimemora altre separazioni e nella quale sperimenteremo il sentimento della perdita.

C’è un paradosso comune alla poesia e al viaggio che si compie in una stanza d’analisi.

L’ombra che ci accompagna con la sua voce, il suo pensiero, il suo corpo, crea l’illusorio paradosso della presenza, abitando in realtà lo spazio di un’assenza, quello lasciato da figure di sogno amate e perdute .

La poesia nasce dallo stesso spazio, da quel sentimento di sempre aperta mancanza, nostalgia, al fondo del proprio essere nel mondo.

Potremmo dire che è dunque l’assenza a spingerci verso l’altro/a, nel sempre fallito tentativo di una pienezza impossibile. Impossibile semplicemente perché abbiamo limiti, caducità, perché l’altro/a non è mai del tutto raggiungibile, né può mai esaurire quell’aspirazione a un nostro tutto che tuttavia permane, come una tensione.

Forse quel tutto di prima della nascita che tentiamo vanamente e follemente a volte, nell’amore, di ricostruire.

Così, in questa spinta verso l’altro/a, intrecciata ai moti di un amore impossibile, incontriamo la bellezza e il limite, ci lasciamo attraversare e modificare dall’incontro, dall’esperienza di ciò che in esso accade, con i suoi dolori, le sue gioie, le sue speranze, desideri, delusioni, i suoi balbettii, i suoi rossori, il timbro d’una voce, il gesto che ci diviene caro, il calore della vicinanza, il freddo della distanza. La poesia ascolta con tutti i sensi, volta alla ricerca dell’altro/a, sempre perduto/a, come Euridice per Orfeo, conosce il mistero di quel vuoto e di quella solitudine che stanno al fondo del nostro essere, ma ne conosce anche la preziosità e la ricchezza. C’è una bellissima poesia su questo, di Emily Dickinson:

 

C’è una solitudine dello spazio,

una solitudine del mare,

una solitudine della morte, ma queste

saranno una folla

a confronto di quel luogo più profondo

quella polare segretezza,

un’anima ammessa alla propria presenza-

finita infinità.

 

La poesia del vivere è l’incontro con se stesse.

La poesia di Emily è straordinaria, perché così la fanno le parole che la compongono, i suoni, la grammatica che la regge, le immagini potenti, una sintesi luminosa, qualcosa che si offre all’ascolto e all’interpretazione di chi la riceve e  che ha la capacità di risuonare in ciascuno diversamente. L’esperienza dell’incontro alla fine di un viaggio che ha come meta noi stesse, ci avrà attraversato,  con i suoi silenzi, stupori,  risate e rigori e attenzioni, emozioni, paesaggi, con le sue figure di sogno e tutto questo avrà avuto singolarità e originalità irripetibili e assolute. Questo non è poesia,  ma è altrettanto  straordinariamente poetico.

Alla fine siamo semplici e forse è meglio lasciare a ciascuno il suo mestiere.

 

Nicoletta Buonapace, “Poesia e psicoanalisi”, tysm, pubblicata 8 novembre 2017 su internet all’indirizzo http://tysm.org/poesia-e-psicoanalisi-in-viaggio-con-lo-sherpa/ 

bottom of page